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Percorsi fotografici realizzati alla maniera di vecchie polaroid e scattate con il cellulare Motorola MotoQ
Archeologia Industriale
ITALTUBI
Si può morire di lavoro.
Per lo stress di fare sempre la stessa cosa, senza capirne la funzionalità, il perché, a che serve. La catena di montaggio degli anni sessanta e settanta era questo, fu questo.
Si muore anche per la fatica fatica, quella fisica che ti leva il sonno per quanto sei stanco e ti fa deperire dal di dentro, come un tarlo maledetto. Tutti gli ultimi del nostro oggi, quelli che chiamiamo extracomunitari, muoiono di questo e della nostra indifferenza, quando non è pure palese razzismo.
Mio zio Peppe è morto anche di altro.
Ogni mattina, quasi all’alba, quella sirena che si sentiva finanche alla Pruvulera, lo svegliava al suo destino. Le bollette, i figli, qualche amico in difficoltà erano il suo appuntamento fisso, con quei tubi da costruire.
In cuor suo era felice, mentre miscelava quella malta, la poneva nelle forme. Sformava lucidi orizzonti di linee di cemento arrotolato. Tubi, milioni di tubi furono realizzati. Ne servivano tanti e per tanti usi. L’Italia correva e guai a fermarsi, a pensare o cercare di capire.
Era felice zio Peppe. Era un privilegiato. Era un operaio torrese, col suo bravo stipendio, con tante voci in busta paga, con tutto quel che era previsto. Il nero era solo un colore per il lutto o per le seppie.
Aveva la tuta e le scarpe adatte e pure i guanti spessi. Tutto a carico della fabbrica. Avevano pure lo spaccio solo per loro, i privilegiati, gli operai col casco giallo. Erano in tanti e questo lo faceva sentire forte, quasi intoccabile. Erano i comunisti, gli operai mangiabambini, quelli che avrebbe cambiato il mondo coi sogni e le speranze.
Si può morire di lavoro un po’ alla volta. Lentamente, senza che niente ti possa far presagire. Tu cerchi di fare quanto più straordinario possibile, di non assentarti mai per un mal di testa. Servono soldi per la televisione nuova, il frigorifero e chissà, tra qualche anno, anche per la seicento tanto sospirata.
Si può morire se tutti i tuoi gesti, quelli che fai da trent’anni e che fanno parte del tuo lavoro, sollevano a tua insaputa, fibre microscopiche di minerale. E quelle nano particelle le respiri col fumo delle sigarette e anche senza, le mangi nella mensa aziendale, quando una pacca sulla spalla volatilizza ancora l’appena posato sulla tuta.
Lo mangi, lo respiri, lo porti pure a casa quando la moglie ti lava i panni della fatica.
Che ne potevi sapere tu, caro zio Peppe, dell’amianto, dell’asbestosi, parola quasi bestemmiosa per quanto difficile da pronunciare. Quel colpo di tosse al mattino? Che vuoi che sia, smetti colle nazionali senza filtro vedrai che va tutto a posto. Il medico del lavoro dà fiducia, come non credergli. Tutto quel bianco del camice ti invoglia a credergli, serve a rassicurare.
- Dottò, io fumo è vero. Ma Giuvanno non ha mai fumato in vita sua e credetemi, tossisce pure lui!
- Giovanotto non mi faccia perder tempo, avanti il prossimo!!
Il prossimo si ammalò, uno a uno. Cancro ai polmoni, alla pleura. Ma si sa, i comunisti mangiano male, con tutti quei bambini a colazione, e fumano troppo.
Fosti ricoverato all’ospedale mieze santa Teresa. Grave insufficienza respiratoria con sversamenti, recitava l’atto di ricovero.
La notte non passò. All’alba un’autoambulanza ti portò al Cardarelli.
Quando uscì per imboccare l’autostrada, la sirena della fabbrica straziava l’aria fredda. Gli occhi ti brillarono per un momento. Capisti che avevi un altro appuntamento.
BiagioFioretti (quattordiciaprileduemiladieci)